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Gente di caruggi -
Tirrenia e sciu Tûrin
(Navigazione interna)
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Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere
(vecchio proverbio montanaro).
Al pescatore non insegnare come si può attraversare il mare
(nuovissimo proverbio tabarkino).
Come
facevano i primi carlofortini e loro discendenti a raggiungere
l’isola madre? Semplicemente la raggiungevano. Andare per mare
era il loro mestiere; e i natanti non mancavano: prima i
pescherecci; poi, pian piano, barche adibite al trasporto
merci; e infine, passeggeri.
Questo
servizio acquista ufficialità dopo quasi un secolo di
colonizzazione. N una videocassetta immaginaria, la
flotta passeggeri darebbe queste sequenze:
la
fregatina d-u Spagna
trasporta la posta e poche persone da e per Cagliari, due
volte la settimana (primo 800); la
bilancella Giacinta
inaugura il servizio per Calasetta (secondo 800).
Il
Tabarca (scafo in legno, macchina a vapore) assicura la
traversata regolare per Portovesme (1881). Il
Pianosa
scorre sul triangolo Carloforte-Calasetta-Portovesme (primo
900). Il
Capo Sandalo manda in pensione il
Pianosa
(1927). Il
Gallura ricopre la linea
Carloforte-Portovesme (1952).
Negli ultimi
anni dello scorso secolo
mamma Tirrenia genera:
Arbatax e
Teulada (1966), il
Carloforte
(1976), il
Vesta (1993) e, successivamente, il suo
gemello
Sibilla.
In un
secolo,
i tempi di miglioria si sono succeduti abbastanza veloci.
L’unico che non è migliorato è proprio il tempo di traversata.
Il piroscafo postale della Navigazione Generale Italia
effettuava una corsa al giorno, Carloforte-Portovesme,
in quaranta minuti (costo del biglietto: L. 1.50 in 1° classe,
L. 1.00 in 2° classe; più tassa di bollo, centesimi 5).
Correva l’anno del Signore 1896. Con motonavi sofisticate, la
traversata Carloforte-Portovesme è sempre di quaranta minuti.
Siamo nel terzo millennio.
Le prime
società a gestire il servizio passeggeri furono la
Marittima e la
Rubattino,
liguri (non poteva essere diversamente).
Poi subentrò la
Società Sarda di Navigazione,
con i quattro mori bendati nell’insegna. Quando giunse il Capo
Sandalo, il primo lavoro impegnativo di Giassintu (mozzo
emergente), fu
quello di
arribôse pe scassò
i quattro mori dal fumaiolo: non per intolleranza verso i
sardi, ma perché
quelle facce ricordavano i pirati incursori del 1798.
Con questa
pulizia etnica, il
Capo Sandalo fu battezzato per il
collegamento con la madre isola. Madrina della cerimonia, la
giovane Maria Plaisant, figlia de
sciu Tûrin.
Chi era
costui? Plaisant Gervasio, noto Ettore (donde il familiare
Tûrin). Per dinastia, da almeno due generazioni, la famiglia
Plaisant fu agente della Società sarda di Navigazione prima, e
della Tirrenia poi.
La
vocazione amministrativa era segnata dall’oroscopo del
giovane, che pensò di prepararsi degnamente alla professione
studiando ragioneria ad Iglesias.
Nel secondo anno, per fortuna (non per disgrazia) si ammalò di
tifo. E fu così che, piantando la grammatica, entrò dritto
nella pratica: la sua capacità direttiva, pur sostenuta da
malferma salute, lo consacra manager.
Fu agente
anche della Monteponi. Fu console francese e olandese. Ma,
soprattutto, fu un signore di sentimenti e di tratto:
sciu
Tûrin era... sciu Tûrin.
Noto a tutti
non solo per il posto che occupava nell’agenzia di
navigazione; ma anche come fiduciario della Tonnara di
Portopaglia.
Due attività di primaria importanza nell’economia di
Carloforte.
Per cui, ogni famiglia, almeno una volta, ha avuto a che fare
con la diplomazia di sciu Tûrin.
Egli
trattata tutti con signorilità. Se poteva, ti faceva il
favore; se non poteva, ti rispondeva con cortesia: minimo,
u dova d-u vuì (qualcosa la dava sempre).
La sua
figura morale era tanto riconosciuta
che gli si attribuiscono espressioni ed aneddoti forse non
esattamente veri, ma certo verosimili.
Così
sciu
Tûrin
non avrebbe
nascosto una iniziale diffidenza nei confronti dei giovani
aspiranti tonnarotti che
portavano
i
cavelli a spin-a de pesciu (antenati dei moderni codini
e/o
pendin
all’orecchio).
Oppure si sarebbe dimostrato restio a concedere anticipi sulla
paga perché quei soldi sarebbero finiti davanti allo schermo
di una
americanota.
In fondo
anche con i dipendenti egli si dimostrava un buon papà:
desiderava invitare i giovani a reagire all’andazzo della moda
e dello spreco (non c’è niente di nuovo sotto il sole).
Ma non si
doveva parlare della Tirrenia? – dirà qualcuno. Perché si è
finito di parlare di
sciu Tûrin? Risposta: perché sono
due istituzioni che vivevano in simbiosi.
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