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Gente di caruggi -
Don Mario
(Mario Ghiga)
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Arriva a
Carloforte, come viceparroco, il giorno 8 novembre 1954, col
“Capo Sandalo”. Entra nell’ufficio del parroco per salutarlo e
mettersi a sua disposizione, come il vescovo aveva ordinato.
Don Mario porge freddamente la mano, poi fa:
-
Te
la senti di fare lezione di latino?
-
Sì, è la
materia che preferisco.
-
Allora
cominci domattina alle
9.
Fu questo
l’ingresso di un giovane prete nella comunità carlofortina
(don Daniele Agus). Sinceramente, si aspettava che il parroco
illustrasse l’orario delle funzioni o l’impegno del catechismo
coi ragazzi. Niente.
Il giovane
prete imparò presto che, a Carloforte, la presenza della
parrocchia nel sociale era una eredità.
Don Mario
l’aveva ricevuta da Don Pagani; e si adoperava per gestirla
nel migliore dei modi. Il vecchio ginnasio Manzoni diventò un
istituto magistrale, del tutto privato, con aule di fortuna,
senza voti sui registri. Ma gli alunni hanno sempre superato
gli esami di idoneità alla classe superiore.
Con don
Mario nacque anche la scuola media legalmente riconosciuta che
funzionò nei locali di via S. Teresa (una casa privata, poco
oltre la capitaneria di porto). Lo stesso istituto nautico fu
voluto tenacemente da questo parroco di poche parole e molti
fatti.
Oltre alla
continuità scolastica, don Mario cura anche la continuità
nell’assistenza ai lavoratori (opre di assistenza); nascono le
cooperative dei pescatori (che hanno tutte il nome di un
santo) e le colonie estive.: tra S. Barbara, Villa Aurora e
Giunco, per due mesi estivi, passano migliaia di bambini,
figli di lavoratori delle miniere del Sulcis-Iglesiente. Don
Mario li visita tutti i giorni, facendosi accompagnare in
Lambretta (le macchine non ingombravano ancora i caruggi).
Alle
famiglie dignitosamente bisognose, faceva giungere qualche
pacco-viveri.
Una signora,
sentendosi trascurata, si presentò in ufficio.
-
Don Mario,
sono tutti che
piggiano
la pasta; e io?
-
La piggierà
anche lei, stia tranquilla – rispose nascondendo un sorriso.
Don Mario
non era molto espansivo; tanto da essersi meritato qualche
puverbiu:
faxeû de môla cheûtta... Buon giorno
tristezza. Ma aveva il cuore in mano. E, se doveva fare
una preferenza, era per i cosiddetti lontani. Diceva:
bisogna essere buoni con i cattivi; tanto, i buoni rimangono
buoni lo
stesso.
Anch’egli
sfruttava le conoscenze che aveva in alto loco per aiutare i
carlofortini a trovare un posto di lavoro e a superare una
difficoltà.
Negli anni
’50, più di uno si imboscava in America (presso parenti o
amici nella zona di Brooklyn). Quando la polizia li scopriva,
per ottenere un regolare permesso di soggiorno, dovevano
dimostrare di non appartenere a partiti di sinistra. E
naturalmente si rivolgevano a don Mario; che scriveva al
cardinale Spielmann (arcivescovo di New York) per raccomandare
l’interessato. Il quale, nove volte su dieci, era proprio di
sinistra. Ma per don Mario era il migliore parrocchiano
praticante.
A prima
vista, don Mario, appariva freddo e sembrava imporre una
distanza; in realtà era il burbero benefico, il gigante di
ghiaccio, che si scioglieva al calore della confidenza.
La vigilia
di una solennità, Carlo, Franco e altri giovani collaboratori
dell’Azione Cattolica addobbavano l’altare col grande drappo
rosso (la cosiddetta
farfalla). Carlo aveva il brevetto
di salire sul tetto per regolare l’altezza della fune,
passante da un pertugio sulla cupola, attraverso cui si
sentiva i comandi:
Issaaa! Tirava su;
Ammaina!
E mollava. Issa e ammaina... ammaina e issa... Carlo si stufò,
mise la bocca sull’apertura e sbottò a tutto volume:
merdaaa! In quel momento, si aprì la porta del cappellone
e sbucò don Mario, che sentì la parola per niente liturgica. E
domandò:
Chi ha parlato così? Franco, con la nota
flemma, rispose:
Eeeebé! Ha detto la parola più igienica
del mondo. Don Mario abbozzò un sorriso semifreddo. E
scappò.
Quando fu
nominato vescovo di Tempio, il cuore gli suggeriva di restare
a Carloforte; lo spirito di ubbidienza gli richiedeva di
andare dove il papa Giovanni XXIII lo mandava. Ma Carloforte è
sempre rimasta nei suoi affetti più cari. Nel suo ultimo
saluto, disse tra l’altro:
“Miei carissimi parrocchiani, non è possibile che io mi allontani
da voi senza mettere il mio cuore
a contatto col vostro (...). Anche se con giusta riservatezza,
che ad alcuni può essere apparsa
freddezza, ho sempre cercato di avvicinare tutti, almeno sul
piano umano (...). Io me ne parto da
voi per obbedienza al Santo Padre e alla Chiesa. Umanamente
parlando è una cosa che rincresce,
ma il mio cuore sarà sempre in mezzo a voi”.
E lo è
ancora, dopo tanti anni dalla sua morte (1963).
Molti
carlofortini si recarono a Tempio per rendergli l’ultimo
omaggio. Durante la veglia notturna del feretro, ad un certo
punto essi sono rimasti gli unici vicino a don Mario; tutti
gli altri, scomparsi. Fu allora che
Tugnìn rissêu disse
ai presenti:
Ste ‘n pò a sentì: nu ghe nisciün; piggiemu
don Mario e s’au purtem’au paize!
Proposta
irrealizzabile. Ma tanto sincera e significativa; ed esprimeva
i sentimenti di tutta Carloforte.
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