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Gente di caruggi -
Ranghittu
(Francesco Rivano)
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In una
graduatoria di ristoranti di Carloforte, nella prima metà del
secolo scorso, ai primissimi posti ci sarebbe Francesco
Rivano, titolare di una tavernetta, modesta, ma di tutto
rispetto. Detto così, forse pochi saprebbero individuarla.
Invece, dicendo da-u Ranghittu tutti sapevano trovarla
in tu caruggiu d-a sacrestia.
Nella
bevetta di via Goito (nome civico del caruggiu), Ranghittu
offriva ristoro agli uomini (le donne non avevano ancora
raggiunto la parità di frequentare locali pubblici), dopo le
fatiche della giornata.
Oggi si va
in pizzeria, anche di mattina, per una pizza da asporto. Ci
vuole mezz’ora per scegliere e un’altra mezz’ora per averla.
Non parliamo, poi, del ristorante, dove è ancora peggio. Il
cameriere si fa un pò attendere. Poi arriva col bloc notes e
penna in mano:
- Cosa vi
preparo?
- Cosa avete?
Il cameriere
recita la litania dei piatti (svelto perchè l’ha imparata a
memoria la mattina).
- Per me...spaghetti
alle vongole!... No aspetti: avete penne all’arrabbiata?...
Senta, mi porti due maccheroni al pomodoro.
Da-u Ranghittu, tutto era più semplice e il cibo più genuino. Bastava sedersi al
tavolo. Lui conosceva, uno per uno, i clienti
afecionados
e serviva senza richiesta: un quarto di vino (prima cosa
sempre fissa e rinnovabile con bis e tris),
fove buggie
cu-in’anciuetta, stucchefisciu cun-e ovive.
Davanti a
leccornie del genere, i minatori d-u Beccu trascorrevano tutta
la serata della domenica. Oppure si riservavano la sosta alla
stazione Ranghittu il giorno della paga. Venivano a piedi
dalla miniera, scendendo dalla
ripa d-u sordu (che ha
preso il nome dal passaggio dei minatori, per lo più di
origine sarda). E vi lasciavano buona parte della paga. Manco
a dirlo che, a casa, trovavano altre
fove buggie e
altro
stucchefisciu. Ma quello di Ranghittu era
un’altra cosa!
A onor del
vero, Ranghittu era uno dei ristoratori di Carloforte. Ma non
l’unico. Fino al tempo della seconda guerra mondiale, qua e là
in ti caruggi prosperavano altre mini bevette, antenate
gloriose dei nostri caffè Devoto e Tazza d’oro. Le più
raffinate:
Melia d-u Pegna, Sussettu, Manenigna, Brassettu,
Beppin Darca, Marietta d-u vin, Annetta d-a Sidda.
Qualcuno
potrebbe pensare: erano tanti gli uomini che trascorrevano
molto tempo in osteria? Prima di tutto quelle non erano
osterie. E poi, la domanda va impostata così: quanti erano gli
uomini che lavoravano ininterrottamente da mattina a sera?
Erano tanti, come si evince dal numero delle bevette. Ecco
perché queste non erano osterie, ma autentici
dopolavoro.
Stando
vicino alla chiesa, la tavernetta Ranghittu rendeva pure un
utile servizio liturgico: provvedeva al fuoco per l’incenso
nelle funzioni. Per i funerali o per la benedizione serale
nelle feste (allora le messe si celebravano solo al mattino), Paulin mandava il chierichetto:
"Vagni da-u Ranghittu"; il quale
aveva sempre il fuoco pronte; ed era contento di donare i
carboni accesi, come partecipazione alla cerimonia cui non
poteva presenziare.
E se la
bevetta era fuori servizio? Succedeva raramente. Allora si
andava nelle case vicine: ogni famiglia, nel pomeriggio, aveva
il fioco per preparare la cena. Adesso, di sera, nelle
famiglie si cucina sempre meno: i vecchi si adattano a una
frutta per via del colesterolo; i giovani vanno in pizzeria.
Ma i sapori
che si gustavano
da-u Ranghittu, in pizzeria non ci
sono. Soprattutto non c’è calore umano.
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