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Gente di caruggi -
Nicuccia e Figlio
(Anna Strina e Domenico Quaquero)
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Dentro il
box all’ingresso del Nautico, Nicuccia non era bidella: era
una regina, nella sua vestaglia nera d’ordinanza come fosse un
abito di cerimonia.
Il marito,
Carlo Quaquero, le aveva lasciato Domenico in tenera età. Anna
si è data da fare per tirarlo su fino al diploma da
macchinista. Essi sono vissuti l’uno per l’altro; e, senza
forzare il destino, si potrebbe dire che si sono richiamati
nell’aldilà.
Nicuccia era
dotata di forme e misure personalizzate al massimo, fuori da
ogni catalogo Vestro.
All’inizio dell’anno scolastico,
l’amministrazione provinciale richiedeva le misure per
preparare le vestaglie ai bidelli. La prima volta, il modulo
riguardante Nicuccia fu respinto dalla sartoria: secondo loro
era impossibile che la larghezza fosse più abbondante
dell’altezza. Secondo loro, ma non secondo Nicuccia. La quale,
con qual suo carattere di simpatia, raccontava il fatto con
abbondante risata.
Lei
trasferiva nella vita della scuola l’istinto materno, che non
riusciva a lasciare a casa. Perciò dal suo trono di vigile
sentinella del buon costume, si sentiva in dovere di
rimproverare un professore che arrivava in ritardo; come fosse
Domenico, quando rincasava troppo tardi, la sera.
Con gli
studenti era ancora più autoritaria, soprattutto se
indisciplinati nel modo di entrare in Istituto o di vestire:
puntava il dito contro blue jeans e minigonne, rigorosamente
vietati dal regolamento interno.
Anche il
profitto stava a cuore a Nicuccia; e avvicinandosi la fine
dell’anno scolastico, la sua grande esperienza le faceva
ripetere la frase fatidica:
Eh, ‘st’annu ne buccemu
parecchi.
Gite,
incontri conviviali, teatri non ne perdeva uno. Partecipava a
tutto. E in prima fila. Nel 1971, il gruppo teatrale esordisce
in chiesa con il
Processo a Gesù, diretto da Linetto
Leone. Nella scena interviene un attore del pubblico. Così:
pino Moretto (attore) siede vicino a Nicuccia. Quando è il suo
turno, si alza e comincia a parlare. Nicuccia lo apostrofa:
E tôsci!... E assetite!... Nu tiu vedi che semu in gexa!...
Basta dì che t’è neu d-u Speccia!
Il figlio
Domenico, compagnone di tutti, era nato per recitare. Ma non
gli si addicevano le parti drammatiche. L’unico momento serio
della sua vita era quando, ancora bambino, Nicuccia lo
vestiva come il giorno di Pasqua, per la cerimonia del 4
Novembre ai Caduti: il babbo non poteva partecipare perché
richiamato in guerra; partecipava la mamma col piccolo
Domenico per insegnargli l’amor di Patria; perciò
u figgiu sfilava
in testa al corteo, portando il gagliardetto dei combattenti e
reduci.
A l’èa ‘na festa, ricordava Nicuccia.
In arte
Domenico si è rivelato un ottimo interprete nelle commedie
messe in scena dal ricordato gruppo teatrale. Anche se
abilmente truccato, come appariva in scena, era salutato da un
caloroso applauso del pubblico.
Più che con
le parole, parlava con l’espressione degli occhi e con la
mimica. Se poi la commedia era in dialetto, Domenico si
esprimeva al massimo della sua capacità interpretativa; e
poteva permettersi anche qualche battuta a soggetto, sempre
sottolineata dal pubblico con applausi.
Dopo anni di
lavoro (prima in navigazione, come il babbo, poi
nell’industria) sperava di godersi una meritata pensione,
appena iniziata. Ma un improvviso malore lo ha rapito
malamente alla famiglia e ai numerosi amici nella vita e
nell’arte. Nell’elogio funebre, Linetto, ringraziando a nome
di tutti, ha detto bene:
Domenico, non riusciamo a credere
che tu sia morto davvero; perché tu saresti capace
anche di
rialzarti!
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