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Gente di caruggi -
Libero da Bella
(Libero Farris)
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In un
convento. Un fraticello laico (frate questuante), limpido come
l’acqua di montagna, domanda al confratello istruito, che gli
siede davanti, a tavola:
“Ma perchè gli uomini bisticciano?”
– “Te lo spiego io con un esempio” – risponde il frate
dotto. Prende un pezzo di pane e lo mette sul tavolo, tra loro
due, e dice al fraticello:
“Io dico che questo pane è mio;
tu, invece, dici no, è mio. E così bisticciamo. Capito?
Proviamo!”. Il frate istruito comincia:
“Questo pane è
mio!”. Il fraticello risponde:
“E allora mangiatelo!”.
Proprio la cattiveria non rientrava nei suoi schemi mentali.
Se, a
Carloforte, volessimo trovare un sosia caratteriale del
fraticello buono, presto fatto: u Libero da Bella. È stato un
uomo buono, che più buono non si può: buon padre di famiglia,
buon lavoratore, buon amico di tutti.
Guidava una
modesta impresa edile dalla quale, in tanti anni, non ha mai
ricavato molta fortuna. A Libero era sufficiente mantenere
decorosamente la famiglia e buoni rapporti con tutti.
Quando si
proponeva di essere grintoso, era la volta che non ci
riusciva. La domenica mattina se ne andava in campagna:
l’unico svago di tutta la settimana (forse anche l’unico della
sua lunga vita).
Coltivava una piccola vigna solo per
l’affetto che lo legava a quei pochi
giuôli che aveva
ereditato dal padre. Ma, al tempo della maturazione, trovava i
germogli mangiucchiati dalle pecore del vicino. E diceva.
“Ma
se ghe l’attraccu na votta, ghe fagu a fossa”.
La
domenica seguente, Libero va in campagna prima dell’alba; e
sorprende le pecore incriminate; il pastorello è
rannicchiato sotto un albero.
Gli si avvicina; e, sforzandosi di sembrare minaccioso, gli
domanda:
“Perchè ti porti e pégue chi
drentu?”.
Quello lo
guarda intirizzito e gli risponde:
“ita est narendi?”.
Era un sardetto che non capiva il dialetto tabarchino. Libero
si rende conto della situazione e abbandona i propositi
bellicosi (che, in realtà, non aveva nemmeno prima).
Accompagna il pastorello dentro la
baracca e lo
rifocilla dandogli la sua colazione (pane e fichi secchi). –
“E
a fossa ghe l’ai fètta?” – domandano a Libero, quando
racconta il fatto –
“Macchè fossa, mechêu, u l’éa mortu d-a
fame!”. Questo fu il gesto più cattivo di Libero.
Gli amici
con i quali aveva condiviso gli anni della giovinezza, avrebbe
voluto incontrarli più spesso; ma il tempo era tiranno. Andò
volentieri da
Nicola du Migliu
(Nicola di Emilio),
marito di Pimpina (Giuseppina, la popolare levatrice, promossa
ginecologa sul campo per aver preso tutti i nati di almeno un
secolo).
Libero non
la vede da parecchio. Entrando in casa saluta:
- Ué, Nicola.
E a Pimpina cumm’a
ŝta? L’è sa ’n pò che nu a veddu
- A sta ben –
risponde l’amico
–
ma a nu l’è ciü sciutia
Lo credo.
Pimpina era morta qualche mese prima.
Libero
coltivava anche l’arte: grande suonatore di chitarra. Non
conosceva una nota di musica; ma sapeva a memoria il giro
armonico delle principali tonalità e faceva vibrare le corde
della chitarra, che tremavano sotto le sue dita da
massacan
cotte dalla calce.
Questi era
Libero,
brôvu cumme ‘n péssu de pan, figlio di una
‘bella’ donna. Proprio un personaggio da libro cuore.
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