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Gente di caruggi -
Maria du Luì
(Maria Ricucci)
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Oriunda
napoletana, come rivela il cognome, era figlia di Luigi
Ricucci; da cui il nome che rese popolare
Maria du Luì
(Luigi). Come se fosse
Maria il nome,
du Luì il
cognome.
E lei andava
fiera di essere conosciuta così. Si sentiva unica. Se talvolta
la chiamavano Maria, lei non si girava. Diceva:
Non
è per me;
mi sun a Maria du Luì.
Dev’essere
stata la donna più alta in assoluto di Carloforte. Era grande
come un armadio quattro stagioni, ben proporzionata in ogni
angolo. Se ti veniva di fronte, ti sembrava di essere Davide
davanti al gigante Golia.
Battagliera
e decisa, non si perdeva in inutili complimenti. Diceva a
tutti, con schiettezza, ciò che doveva dire, con quella voce
(non proprio da soprano) che saliva dalla grancassa del suo
senato abbondante.
Buona
padrona di casa, dedicava alla famiglia sei giorni alla
settimana. Il settimo si riposava, secondo l’insegnamento
biblico. Ma lei riposava per modo di dire: Maria du Luì era
una sportiva appassionata (il tifo la percorreva tutta, dai
capelli alle unghie dei piedi).
Perciò la domenica era dedicata al calcio. Non a quello
nazionale, che vediamo in tivù; ma al calcio locale, con i
ragazzi che si possono applaudire dal vivo, e gli avversari
che si possono insultare altrettanto dal vivo. Il marito,
Maurissieddu, fu
presidente del Carloforte per tanti anni. Anche quando la
squadra perdeva, un ammiratore era sempre sicuro: la moglie.
I calciatori
del Carloforte erano figli d’anima di
Maria du Luì: si
sentiva loro patrona, li proteggeva, li seguiva in casa e in
trasferta; e per essi preparava la migliore zuppa inglese (che
le riusciva così buona solo quando la faceva per i giocatori).
Naturalmente il dolce era il premio-partita, se vincevano. E
se perdevano? Niente premio. Ma il dolce non si sprecava: per
tutta la settimana, la famiglia Maurissieddu doveva mangiare
zuppa inglese a colazione, a pranzo e a cena. E guai se
qualcuno osava protestare.
Quando si
disputava il derby Carloforte – S. Antioco,
Maria du Luì,
dal lunedì precedente, soffriva di stati d’ansia e non aveva
voglia neppure di far da mangiare. Maurissieddu e i figli, per
sei giorni, dovevano arrangiarsi con mini-pasti fai-da-te;
perché
a Maria a l’aiva de tüttu: ghe tremova e gambe
solo al pensiero del grande incontro.
La partita
lei non la vedeva, la viveva intensamente. Sulla gradinata si
agitava, incoraggiava, minacciava con le mani e con quanta
voce aveva in gola. Quando si alzava dritta, per applaudire un
gol o per inveire contro l’arbitro (con aggettivi di vario
genere), toglieva la visuale agli spettatori malcapitati, che
urlavano nei suoi confronti. Maria du Luì lanciava solo uno
sguardo con la coda dell’occhio, letteralmente dall’alto in
basso;
e tütti sitti cumme peccetti.
Se il
Carloforte vinceva il derby, la grande tifosa si sentiva
invasa dalla musa e diventava cantautrice nella lingua dei
vinti:
Su bistiri ‘e su rei est color’e fogu, sa squadra ‘e
Carloforte ha bintu S. Antiogu. Per fortuna (o, peccato?)
il derby si gioca solo due volte in un campionato.
C’è pure chi
ha assaggiato l’ombrello di Maria du Luì. Il figlio, Rino, si
presentò a un colloquio per assunzione al lavoro. Il dirigente
addetto, saputo che era di Carloforte, gli raccontò:
“Da giovane andai a Carloforte a seguito della squadra di calcio.
Era
autunno. Vincemmo per 2 a 1. Con gli amici continuai a
canzonare i Carlofortini
perdenti. Mi arrivarono due brutti colpi di
ombrello
sulla testa. Mi girai. Una donna mi sovrastava minacciosa. Per
evitarla, guadagnai la
scalinata
per scendere in fretta in paese, sempre ridendo dei vinti. Ma,
ad ogni gradino, mi
arrivava
un colpo di ombrello in testa.”
Rino ascoltò
il racconto, facendo uno sforzo per non tradirsi. Superò il
colloquio e fu assunto al lavoro. Dopo qualche tempo, ormai in
confidenza col dirigente in questione, gli confidò:
“La donna
dell’ombrello
era mia madre”.
E risero
insieme.
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