> La Storia
> L'incursione tunisina e gli anni della schiavitù
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Il resoconto dei fatti secondo Ampelio Panzalis
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Nella notte del 2 settembre del 1798 arrivarono inosservate
nelle acque di Carloforte, fiorente colonia di tabarchini
nell’isola di San Pietro, in Sardegna, fondata dal Re Carlo
Emanuele III di Savoia, quattro navi tunisine armate di una
cinquantina di cannoni e con a bordo circa mille persone tra
marinai e predoni.
Secondo gli ordini ricevuti dal Bey, loro signore, e
secondo le istruzioni del capo della spedizione dovevano
giungere davanti all’isola improvvisamente, fare un grosso
bottino e menar schiava a Tunisi tutta la popolazione.
E
riuscirono nell’intento. Le navi si ancorarono nella piccola
rada e quei pirati si apprestarono a discendere
silenziosamente a terra, armati di tutto punto.
Li guidava un giovane alto, bruno, col volto incorniciato
da una folta barba nera che gli dava un aspetto truce; nei
suoi occhi che mandavano lampi si leggeva la gioia feroce
della vendetta...
Oh Alì sì mi vendicherò! Diceva
rivolto verso un brutto ceffo che stavagli vicino e ravvolto
in una specie di manto bianco,
mi vendicherò, e quella
sgualdrina pagherà il fio del suo infame tradimento...!
E mentre le imbarcazioni conducevano a terra gli ultimi
armati egli continuava a parlare a voce bassa, ma concitata
con Alì Mohamed, suo luogotenente. Chi era quest’uomo che
parlava di vendetta?
Nel 1795,
Gian Samosa dalla sua nativa
isola
di Capraia, dell’Arcipelago Toscano erasi recato a Carloforte
per esercitarvi la pesca del corallo, allora una delle
principali risorse del feudo del sig. Marchese della Guardia,
Duca di San Pietro.
Là aveva conosciuto una bella e formosa giovinetta di quasi
vent’anni, se ne era perdutamente innamorato e aveva chiesto
la sua mano ai genitori che subito acconsentirono; acconsentì
anche la giovane e il matrimonio fu celebrato nei primi del
1796. Trascorsi appena sette mesi, egli, brutale e geloso
cominciò a nutrire sospetti sull’onestà della moglie. Quindi
derivarono rimproveri e maltrattamenti di ogni sorta.
La povera giovane, stanca di quella vita dura e infelice,
un bel giorno scappò di casa sua per ricoverarsi in casa dei
genitori, ai quali voleva chiedere asilo e protezione contro
la brutalità del marito. Nel tragitto fra l’abitazione sua e
quella dei genitori incontrò per caso un giovane parente, il
quale vistala scarmigliata e piangente s’affrettò a domandarle
il motivo di quella disperazione. Saputo di che trattavasi
proruppe in esclamazione di sdegno, scagliando invettive
all’indirizzo del capraiese. Costui intanto sbucava da un
viottolo per raggiungere la moglie fuggitiva; sentì i
lamenti
di essa e le parole d’indignazione del giovane che ergevasi a
paladino della donna oltraggiata e, accecato dall’ira e dalla
gelosia poichè lo credeva appunto l’amante della moglie, gli
si scagliò addosso senza dargli il tempo di mettersi in
difesa, rovesciandolo a terra e tempestandolo di pugni.
E ugual sorte sarebbe toccata alla sventurata giovane se
molta gente, udito quello strepito, non fosse
accorsa per
calmare l’ira del feroce aggressore. Non potendo più menar le
mani, con la voce strozzata dalla rabbia, urlò, rivolto alla
moglie pallida e tremante tenuta da parecchie donne
“sgualdrina, ora finalmente t’ho trovata col tuo amante...
eran dunque ben fondati i miei sospetti...; vi avrei uccisi
tutti e due come cani rognosi se questi poltroni di tabarchini
non me lo avessero impedito...
Ma me la pagherai”.
Indi agli uomini che lo tenevano per le braccia e per le gambe
e alle persone spettatrici:
“E anche voi me la pagherete
ben cara; ricordatevi del capraiese!”
Da quel giorno no fu più visto, né di lui alcuna notizia si
ebbe più in paese. Erasi recato con l’animo invaso da fieri
propositi, nella Reggenza di Tunisi e da cristiano
si convertì
in maomettano; siccome allora i rinnegati salivano molto in
favore presso gli islamitici, egli per la sua bravura in fatto
di rapine e di atroci vendette, ben presto fu innalzato a
grado di Capitano delle milizie del Bey, atte più che altro a
esercitare la pirateria. Giovandosi del suo grado e della
posizione che teneva in quella corte questo volgarissimo Menelao, al quale stava fitto in cuore il cruccio della moglie
trascorsa ad altro amore, chiese ed ottenne di poter invadere
e saccheggiare il feudo del Duca di San Pietro.
“Siamo
pronti? Sì capitano. Bene, ricordatevi dunque delle istruzioni
che vi diedi e per la gloria del Nostro Profeta, avanti!”
Una parte di quella masnada, di corsa, con le armi da fuoco in
pugno occupò i passi principali pei quali si sospettava
potessero fuggire i popolani, una si sparse in paese, la terza
prese la via del castello. Le sentinelle postevi a guardarlo,
o assonnate o sbadate, non s’avvidero di nulla e diedero
l’allarme quando il pericolo era irreparabile, alla
guarnigione minuscola ivi accasermata. I soldati, quantunque
prontamente riscossi dal luogotenente Arras, non ebbero
neppure il tempo di impugnare le armi per opporre resistenza,
perché furono sopraffatti dai pirati numerosi.
Distrutta la guarnigione, questi predoni, agli ordini del
luogotenente tunisino Alì Mohamed, s’unirono a quei diretti,
nella non lodevole impresa di saccheggio, dal famigerato
capraiese.
Le porte delle quiete abitazioni furono sfondate: i
carolini brutalmente sorpresi in quella tarda ora della notte
nel sonno, attoniti, non sapevano e non potevano difendersi;
venivano perciò prestamente incatenati e condotti a bordo
delle navi tunisine ove a detta del capraiese
dovean
esser cacciati nella stiva a far da zavorra!
Nessuno
fu rispettato; il Console di Francia Romby con la famiglia e
altre persone ragguardevoli furono incatenate e trattate alla
stregua dei più volgari malfattori.
Fu dopo rilasciato il sig. Romby quando si avvidero che la sua cattura avrebbe indotto la
Repubblica di Francia a chiedere serie soddisfazioni al Bey;
ma come rilasciato? Dopo averlo martoriato e insultato in
mille guise fu gettato con la moglie ed i figli in un canotto
senza timone e senza remi, in mezzo al mare procelloso e a
grande distanza da Carloforte.
Parecchi fortunati poterono mettersi in salvo rifugiandosi
presso il Console inglese, unico individuo rispettato, o in
campagna e tra essi erano rare le donne, ricercate dalla
brutalità di quei manigoldi: difatti esse venivano sottoposte
a ogni sorta di contumelie e di torture dopo aver subito i
loro immondi abbracciamenti, poi incatenate a viva forza,
assieme ai vecchi e ai fanciulli e condotte sulle navi
tunisine per riempirne la sentina.
I prigionieri ascendevano a quasi
un migliaio, il bottino
fu considerevole: rapirono quanto poterono, spogliarono le
case, la Chiesa, ove il parroco erasi salvato nascondendosi in
una tomba, profanarono, ruppero, devastarono, vilipesero ogni
cosa che non potevan trarre seco; guastarono tra l’altro
tutte
le barche sparse per il litorale, frutto di tanto sudore degli
sventurati tabarchini.
Mentre i pirati spargevansi pel paese per compiere
indisturbati le loro gesta a base di stupri e di saccheggi,
Gian Samosa, il loro degno condottiero, con un gruppo dei più
dissoluti, erasi diretto, predisposto a gustare il
piacere
della vendetta verso l’abitazione di quella che fu già sua
moglie situata in una delle estremità del paese.
Quivi giunti sfondarono senza indugio la porta e si
precipitarono dentro con le fiaccole accese ed
emettendo urli
selvaggi: gli abitatori destati improvvisamente per la
violenta irruzione di quei ceffi prima che avessero il tempo
di riaversi dallo spavento furono agguantati, solidamente
legati e sottoposti a inaudite torture.
Il capraiese, con un
sogghigno feroce si piantò davanti
alla moglie, pur lei legata sul letto e con voce che le fece
scorrere pel corpo lunghi brividi le disse:
“Mi
riconosci? Guardami bene; ora sgualdrina è suonata l’ultima
tua ora, come quella dei tuoi vili compaesani, raccomanda
l’anima infame al tuo Dio e ai tuoi Santi! Ti ricordi quando
scappasti da casa per raggiungere il tuo drudo che ti
attendeva?
Ti ricordi del capraiese che aveva giurato di
vendicarsi? Ora pagherai il fio del tuo
tradimento”.
La poveretta, fuor di
sé dallo spavento, fra i singhiozzi
cercava di difendersi dall’accusa ingiusta; ma il capraiese
era sordo alle sue pietose parole, rivoltosi poi verso i
pirati esclamò:
“A voi, è in vostro potere!”
Quei bruti non se lo fecero ripetere: dopo averla contesa per
violentarla, dopo averla tormentata in mille modi sotto gli
occhi del loro crudele capitano, fecero del suo corpo
orribile
scempio, poi la trasportarono sulle galere che già cariche di
bottino e di prigionieri disponevansi per la partenza.
La povera infelice, straziata crudelmente, non insistette
molto a esalare l’ultimo respiro: ne fu avvertito il capraiese,
il quale tranquillamente rispose:
“È
morta? Sta bene, ora che non vi serve più potete regalarla ai
pesci!”.
E la povera giovane, che mai avrebbe pensato in vita sua
d’essere un giorno la cagione di tanto disastro alla patria
sua, fu gettata in mare.
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