La paternità del dialetto tabarkino di Carloforte, di Calasetta e di Nueva Tabarca di Spagna
(dove è attualmente estinto) spetta di diritto alla Liguria e
precisamente a Pegli, perché di là partirono gli antenati,
pescatori nella maggior parte, con le relative famiglie, per
andare a trapiantarsi nel 1540 nell’Isola di Tabarca, di
fronte all’Africa, e là effettuare la pesca del corallo nel
mare dei dintorni, per conto dei Lomellini di Pegli.
Portavano con loro, oltre alla dotazione delle attrezzature
per la pesca ed ai limitati corredi necessari per la vita
familiare, un bagaglio di lingua che doveva servir loro per lo
sviluppo dei rapporti interni e con esso usi e costumi da
tramandare alle future generazioni; questi ultimi elementi
però, è facile immaginarlo, sarebbero stati tutti soggetti ad
imprevedibili variazioni dipendenti dai contatti con
l’ambiente circostante.
Conoscendo il tipo di lavoro esercitato dagli avi, viene
spontaneo pensare che il dialetto avesse allora
caratteristiche di un volgare, ed è da attribuire loro grande
merito per averlo conservato e distribuito a
Carloforte, a
Calasetta e a
Nueva Tabarca, dopo
due secoli di vita
costellata da soprusi, angherie, privazioni, stenti e
sacrifici affrontati e subiti a diretto contatto con il mondo
mussulmano, non certo docile nei loro confronti.
A noi non è dato sapere quanto abbiano potuto influire il
tempo e gli elementi esterni sulla vita e lo sviluppo di
questo idioma dal 1541 al 1737 e con quali varianti sia stato
portato sull’Isola di San Pietro al momento del trasferimento.
Solamente un confronto diretto con quello parlato, all’epoca,
nella terra d’origine (Pegli), il che non è consentito,
permetterebbe di rilevarne le differenze.
Attualmente le
generazioni che continuano costantemente a tenerlo vivo nella
parlata quotidiana, s’accorgono facilmente che il tempo,
l’ingresso e la diffusione della cultura scolastica nel
tessuto sociale, i collegamenti con l’ambiente circostante, le
attività esercitate lontano dal paese natio e la necessità di
vita a diretto contatto con elementi inseriti nella nostra
società per motivi di lavoro, hanno sensibilmente
infiltrato
nel dialetto dei correttivi, sia pure giustificati, che lo
privano della peculiare genuinità custodita gelosamente nel
corso di tanti anni.
Altresì questa capacità della lingua di
reinventarsi e di ricrearsi adattandosi a esigenze nuove è il
vero segnale della sua straordinaria vitalità, riflessa da
percentuali "bulgare" nell'uso quotidiano, che nessun'altra
parlata tradizionale, in Italia, può vantare.
Dati del 2006, raccolti dalla
Regione Autonoma della Sardegna, parlano per Carloforte di
un 86,7% di locutori tabarchini, con un
84% di
giovani tra i quindici e i trentaquattro anni saldamente
ancorati all'uso della lingua locale, e di una distribuzione
sostanzialmente omogenea di parlanti per sesso (88,9%
di maschi e 82,2% di femmine), classe sociale e persino
livello d'istruzione; ed è significativo, in ogni caso, che
anche il 13,3%di persone che non parla il tabarchino
ne abbia quanto meno una competenza passiva; mentre il
sardo è conosciuto (ma non parlato!) da un esiguo
12,2%. Chi viene dal resto della Sardegna, così, deve per
forza adattarsi, anche perché le statistiche parlano di un
uso prevalente del tabarchino rispetto all'italiano, non
solo in famiglia, ma nei bar, nei negozi, negli uffici.
Persino in chiesa.
Lo stesso
Consiglio Comunale ne ammette l'uso: i nomi delle strade
sono rigorosamente bilingui, l'annuale Festival della Canzone
Tabarchina suscita passioni che manco quello di Sanremo.
Radio e televisioni locali trasmettono spesso in
tabarchino, e le scuole di ogni ordine e grado hanno
promosso da tempo iniziative didattiche sulla lingua madre,
fino alla pubblicazione di libri di testo,
illustrati dai
ragazzi, che costituiscono l'orgoglio delle maestre della
scuola elementare: un episodio di promozione linguistica dal
basso più unico che raro.
Il dialetto è quindi una
chiave indispensabile per "capire"
la realtà locale ed accompagnare il soggiorno a Carloforte in
più modi: dalle sonorità che si colgono ovunque, dalla
presenza nella toponomastica, dalla complessa
nomenclatura dei piatti tipici fino alle coinvolgenti
serenate notturne che affascinano chiunque si trovi a
passare per i vicoli del paese.
E dunque,
visitare Carloforte senza acquisire consapevolezza della sua
specificità linguistica equivale, in pratica, a
non visitare
Carloforte; girare per l'isola di San Pietro e non accorgersi
del tabarchino, oltre che essere praticamente
impossibile,
sarebbe come privarsi del piacere di riconoscere quel che c'è
di più intimamente vero nei luoghi e nelle persone di questo
microcosmo singolare.